Gian Antonio Casanova Fuga ci ha inviato questo suo interessante articolo pubblicato tempo fa su “IL Cadore” mensile edito da La Magnifica Comunità di Cadore
LAVORI BOSCHIVI IN COMELICO NEL PRIMO NOVECENTO E QUALCHE PROPOSTA PER IL GIORNO D’ OGGI.
E’ proprio vero che le cose e i mestieri di cui si è venuti in contatto da bambini ti rimangono impressi nella mente per tutta la vita, anche se il destino ti ha portato a fare un altro lavoro. Pertanto, motivato dalla vostra intervista al dott. Costatino Pinazza ( che conosco personalmente-abbiamo fatto recentemente una martellata di piante in Comelico), desidero rendere pubblica una mia ricerca sulla trasformazione del bosco da parte dei nostri avi. Il taglio del bosco con la vendita delle taié[1] ( tronchi ) ha costituito da tempo immemorabile una delle principali risorse economiche della nostra gente durante il trascorre degli anni e dei secoli che ci hanno preceduto. Basti pensare all’istituzione delle Regole o Comunioni Familiari che con i loro laudi e statuti hanno disciplinato anche tale materia da oltre un millennio. Anche la < Magnifica >che è editrice di questo giornale, possiede parecchi ettari di bosco pregiato nella Val Comelico.
Sull’ argomento “ taglio e lavorazione delle piante “ci sono parecchie consuetudini tramandate oralmente da generazione in generazione e ci sono delle normative prescritte dalla Forestale tempo per tempo. Alcuni anni fa ho avuto modo di leggere uno scritto di Orazio De Zolt Soch di Campolongo riguardante la tecnica dei lavori boschivi in Comelico. Il personaggio era molto noto e considerato, un vero tecnico del settore, ricordo di averlo conosciuto nel bar di famiglia negli anni Cinquanta. In tale interessante relazione era riportata la tecnica d’utilizzazione del nostro patrimonio boschivo, con la consuetudine da sempre messa in pratica nelle nostre zone : tòle e lasà (prendere e lasciare ). Ovvero, tagliare solo alcuni degli alberi maturi mantenendo al bosco una sana trasparenza, e cioè il contrario del taglio a raso praticato nella vicina Austria e in Pusteria. Tale modo di sfruttamento del bosco era ed è praticato in tutto il Cadore l’Ampezzano e in tutta la parte alta della provincia di Belluno . Sempre nell’anzidetta notazione vi è descritta la tecnica praticata nei primi decenni del Novecento nell’abbattimento delle piante mature ( 12 once-circa 35 cm a 4 metri d’altezza ) e il loro allestimento con scalo a strada. Una pianta matura e di buon aspetto può “dare” fino a sette tronchi oltre al cimale. Alle piante con qualche difetto o del marcio alla base, anzitutto venivano sezionati i mute o bóre (zoccoli ) che a quel tempo servivano per ricavare la sandla (scandole), da usare nella copertura dei tetti di case e fienili. Prima dell’attuale meccanizzazione con l’uso di motoseghe e processori il lavoro era effettuato esclusivamente a mano con le manère ( scure ) da taié (abbattimento della pianta), da scavazà ( sezionatura dell’albero in tronchi) o da dramà ( togliere i rami ). I primi segoni di tipo americano ( sión) da noi arrivarono alla fine degli anni Venti, questo nuovo utensile se ben usato da due esperti boscaioli permetteva di abbattere una pianta nel giro di pochi minuti, mentre il taglio a manéra richiedeva maggior tempo e grande abilità nell’uso della scure. La prima motosega arrivò in Comelico nel 1956. Ritornando ai primi del Novecento una volta abbattuta la pianta: larice (Larés), abete bianco (Vdì), abete rosso (Pzö) venivano sezionati i tronchi, tagliati i rami, tolta la corteccia, fatta la corona o pilón e le taié lasciate ad essiccare su letto di caduta fino alla stagione fredda; poi, se il bosco era in pendenza con l’ausilio di robusti cavalli da tiro si procedeva al successivo scalo ( imbigné) in risine o lisse in fondo della quale si formava il tasón ( catasta ).
Nei boschi piani o semipiani l’operazione avveniva attraverso le bigozére ( pista di terra ) con le bigòze ( mezzi carri trainati da cavalli ). Per entrambi questi lavori di “ammassamento” dei tronchi servivano dei grossi zapins ( zappini ) per fare leva o tirare a forza di braccia il tronco nella posizione voluta.
All’ interno della Val Visdende era proibita la mnàda ( fluitazione ) del legname, quindi i tronchi dovevano essere trasportati fino a Ponte Cordevole con il còcio (grosso slittone con pattini ) trainato da cavalli, dietro al quale andavano attaccati con lo stròz (gancio di ferro ) alcune taié a cui era applicata una o più catene che dovevano servire a frenare lo scivolamento sulla strada innevata e ghiacciata del Cianà ( rotabile che collega Visdende al fondo valle ).
L’operazione era alquanto impegnativa il quanto lo slittone con il carico del legname e con le altre taiè a scràsna ( tronchi a strascico) in caso di manovre sbagliate avrebbe potuto facilmente finire nel sottostante Salvéla o Piave di Visdende.
A Cima Canale quest’operazione di preparazione dei còces per affrontare la discesa con una certa tranquillità era laboriosa e si formavano code anche di una ventina di slittoni che attendevano il loro turno per scendere a valle. La famiglia di Bissa (Pontil Scala) era una delle più attrezzate per lo scalo e trasporto dei tronchi, operava prevalentemente in Val Visdende ed aveva diverse cubie (coppie) di robusti cavalli da tiro adatti allo scopo. Alla sera terminato il lavoro i cavalli rientravano nella stalla a Cima Mare, sudati e leggermente fumanti nell’aria fresca delle sere invernali. Tolti i finimenti e dato loro una robusta biéstra ( brancata ) di fieno e qualche manciata d’avena venivano accompagnati a borà ( bere ) alla vicina fontana dove l’acqua correva giorno e notte. Le taié una volta arrivate in fondo alla valle e accatastate in appositi stàziés ( piazzali ) vicini al Piave, con la morbida del mese di maggio potevano essere immesse nelle acque del Piave e con “assistenza” dei menadàs ( zattieri ) arrivare fino al Cidolo di Perarolo, dove si trovavano le grandi segherie e industrie del legno di fine Ottocento inizio Novecento. Per superare certe asperità del corso del Piave venivano creati dei ponti con tronchi lunghi fino ad otto metri, nella nostra zona era famoso al sitón dl Agàtona che serviva per affrontare il salto che il fiume compie il quel posto, tuttora conosciuto come l’orrido dell’Acquatona. Questa pratica durò fino al 1927, con la costruzione della diga della Valle fu reso vano tale metodo di trasporto del legname. Strumento principale per quest’operazione era il linghé (asta flessibile molto lunga in legno di betulla ) con un becco ricurvo per arpionare le taié. Quando il lotto delle piante da tagliare era consistente e lontano dai paesi e portarsi sul posto di lavoro al mattino e rincasare alla sera comportava ore di cammino, la prima operazione che facevano i nostri boscaioli era la costruzione del cadón per dormire in loco. ( Capanna con lo scheletro di stanghe rivestita con cortecce < scorze > ), in più c’era una tettoia esterna ad uso cucina. Il tutto era generalmente costruito vicino ad un corso d’acqua potabile. Per la preparazione dei pasti c’era un cuoco ed un aiuto cuoco, in dialetto chiamato scotón, a questi competeva il compito di portare l’acqua da bere e il magiare alla squadra che operava all’interno del bosco. Di solito il pasto di mezzogiorno era composto da polenta e formaggio. Per i lotti importanti, la squadra era composta da 20-25 persone ed il capo o assuntor era eletto democraticamente tra gli operai e oltre a dirigere i lavori teneva i rapporti con la ditta appaltante. La retribuzione avveniva a cottimo ( un tanto a taglia ) oppure ad economia ( una tanto a giornata ) .
La giornata lavorativa era d’otto ore con alcune soste durante l’orario, di sabato le ore erano cinque. Alla sera prima di dormire ( vestiti ) sulla dàgha ( letto improvvisato ) con un materasso di dassa ( rametti d’abete ) veniva recitato il Rosario o si raccontavano delle “storie”; alcune vere, altre erano delle leggende metropolitane ( come si direbbe oggi ). Si facevano pure degli scherzi e burle varie, il tutto era finalizzato a mantenere il buon umore e l’affiatamento nella squadra. Per diventare boschieri bisognava iniziare da giovanissimi facendo prima i lavori più umili, tipo portare gli attrezzi, tagliare i rami e scortecciare i tronchi, solo dopo aver appreso l’abilità nel maneggiare la scure tanto a destra quanto a sinistra si passava alla classe dei scavazàdor. A quell’epoca gli attrezzi che servivano per il lavoro erano fabbricati da valenti fabbri forgiatori della zona, particolarmente famosi quelli di Dont di Zoldo per gli strumenti da taglio, mentre per gli zappini era famosa la marca “Margò” di Comeglians (UD). All’interno d’ogni squadra non mancava mai una mola ad acqua azionata a mano per l’affilatura dei preziosi strumenti di lavoro. Questa la “storia” di come lavoravano nel bosco: (oro verde delle nostre vallate ), i nostri padri e nonni.
Ora, con i mezzi e attrezzature moderne: motoseghe, trattori cingolati, processori, camions muniti di “pinze” oleodinamiche per caricare e scaricare i tronchi le cose e i tempi di lavorazione del legname sono completamente cambiati. Gli alberi vengano abbattuti ed allestiti in ogni stagione e i tronchi non più scortecciati ma portati immediatamente in segheria. Una volta trasformati in tavole queste vengono passate nell’essiccatoio e diventano subito disponibili per la messa in opera. Da quanto documentato e scritto a me pare che una riflessione su come “sfruttare”, o per meglio dire, utilizzare oggi questa nostra ricchezza vada fatta e messa in pratica. Ad esempio: perchè non “ copiare “ le centraline a biomassa (funzionanti a cippato) per il teleriscaldamento e/o per la produzione d’energia elettrica presenti nel vicino Alto Adige ? Oppure, perché non raccogliere e trasformare in pellets, gli schianti, gli spurghi i cimali e le ramaglie che associate agli scarti di lavorazione del taglio degli alberi, ( nonostante la distribuzione del Colnél ) molte volte sono lasciati a marcire nei boschi ? Come auspicato nel servizio del numero precedente de “ Il Cadore “ anch’io ribadisco che dovremmo dotarci di un “marchio” di certificazione d’origine per il legname tagliato in zona.
Andrebbe pure costituito un consorzio tra i proprietari dei grandi appezzamenti boschivi ( Regole, Comuni e Privati ) finalizzato alla segagione e prima lavorazione del legname, con una segheria e impianti di lavorazione e trasformazione funzionali e moderni. Personalmente vedrei ottimale l’allocazione di tale infrastruttura a Cima Gogna, posizione strategica per il territorio boscato cadorino e con la maggioranza dei terreni di proprietà della Magnifica Comunità che potrebbe fare la capofila a questo tipo di operazione. Se ciò avvenisse si potrebbe creare quel valore aggiunto alla pregiata materia prima di cui il Cadore è stato particolarmente dotato da madre natura.
Solo in Comelico ci sono sedici Regole e se tutte fossero disposte ad investire centomila euro cadauna penso che qualcosa si potrebbe già iniziare a realizzare fin da subito, o no ?
Gian Antonio Casanova Fuga
[1] Tutti i termini dialettali sono scritti nella parlata di San Pietro di Cadore.